Il 2025 anno nero per i ghiacciai. E aumentano gli eventi meteo estremi. «In montagna sempre più a rischio territori e persone»
di Alessandro Sala
Il bilancio di Legambiente, Cipra e Fondazione glaciologica italiana. L’arco alpino potrebbe registrare sempre più casi di inondazioni. La scomparsa del permafrost aumenta anche i rischi di frane. «Ma la prevenzione aiuta a salvare vite»
Uno scorcio del ghiacciaio dell’Adamello, il più vasto d’Italia, all’inizio del 900 e ggi
Il collasso del ghiacciaio di Birch, che lo scorso 28 maggio ha travolto e distrutto il villaggio di Blatten, in Svizzera, è probabilmente l’evento dell’anno che dal punto di vista geologico racconta forse meglio gli effetti del cambiamento climatico in quota. Una tragedia, perché in pochi secondi è stata cancellato un pezzo di storia del Canton Vallese, con la scomparsa di quello che era il borgo più elevato della Lötschental, una vallata che fa da cerniera con il cantone di Berna, a circa 1.500 metri sul livello del mare. Ma nella sua drammaticità è stato anche l’evento che ha insegnato come gli effetti del surriscaldamento si possano monitorare e in qualche modo gestire. Ed è per questo che, anche se collocato poco al di là dei confini nazionali, è stato scelto come esempio da Legambiente che vi ha fatto tappa, ad agosto, durante la sua Carovana dei Ghiacciai, l’iniziativa che ogni estate monitora sul campo lo stato di salute dei principali ghiacciai dell’arco alpino.
Il monitoraggio costante delle condizioni del Birch, così come avviene anche per molti altri casi, ha permesso alle autorità svizzere di intervenire per tempo e di fare sgomberare per tempo l’intero villaggio, evitando che il disastro si trasformasse anche in tragedia. Ed è questa la strategia di base su cui si fonda il «Manifesto per i ghiacciai» che Legambiente ha promosso assieme ad altri enti e organizzazioni e che ora si chiede di trasformare in protocollo operativo da parte di tutte le nazioni dell’area delle Alpi. Una necessità ribadita anche oggi a Torino, dove in vista della Giornata internazionale della montagna che si celebra dopodomani sono stati chiamati a raccolta docenti universitari, esperti, attivisti e rappresentanti istituzionali per ribadire che le emergenze non si risolvono da sole ma vanno affrontate. Con metodo scientifico e mettendo in campo le necessarie risorse.
Le condizioni in cui versano i grandi nevai alpini sono il sintomo più evidente della malattia che sta colpendo il pianeta. Questa febbre che alza la temperatura viene troppo spesso ignorata da chi governa, perché una presa di coscienza avrebbe come naturale conseguenza l’avvio di politiche serie per il contenimento delle variazioni climatiche, che comportano non solo grandi investimenti ma anche profonde modifiche degli stili di vita, difficili da far digerire all’opinione pubblica, il solo indicatore che ai politici interessa davvero. Eppure i numeri sono impietosi e sono stati ribaditi nel convegno promosso al Museo della Montagna «Duca degli Abruzzi», un luogo che racconta le gesta e le epopee di un alpinismo che già deve fare i conti con le trasformazioni che il clima impone alle terre alte e a chi le frequenta.
Nel corso del 2025 sono stati molti i crolli, le frane, le colate detritiche di alta quota che hanno costellato l’intero territorio alpino. Flagellato anche da eventi meteorologici estremi. La fusione dei ghiacciai e le piogge intense riversano nel terreno, nelle valli, nei fiumi enormi quantità di acqua che non viene più trattenuta. E la perdita parallela di permafrost, il mix di ghiaccio interstiziale e roccia che ha sempre fatto da cemento per picchi e pinnacoli, ha creato fenditure libere che hanno favorito distacchi di pezzi di montagna. Quello di cima Falkner, sopra Madonna di Campiglio, ha fatto più notizia di altri, sia per il luogo in cui è avvenuta, il cuore delle Dolomiti di Brenta, un patrimonio di bellezza unico al mondo, sia per la sua notorietà essendo sul crocevia di itinerari alpinistici e sentieri attrezzati molto frequentati. Ma sono decine, centinaia, gli eventi che si sono registrati e si registrano con frequenza sempre maggiore.
Qualche dato, tratto dal sesto report della «Carovana dei Ghiacciai», realizzato in collaborazione con Cipra Italia (Commissione internazionale per la protezione delle Alpi) e Fondazione glaciologica italiana. Le frane documentate in alta quota, da gennaio ad oggi, sono state almeno 40, con una concentrazione nei mesi estivi (i due più colpiti sono stati giugno con 10 eventi e agosto con 18). I crolli di roccia, stando all’analisi della ricercatrice Marta Chiarle del Cnr-Irpi, hanno quasi eguagliato per numerosità le colate detritiche (rispettivamente 18 e 20 eventi documentati). Le regioni più colpite sono state il Veneto con 17 eventi franosi e la Valle D’Aosta, con 12. Se si allarga lo sguardo ad un periodo più lungo, dal 2018 al 2025 (elaborazione di Legambiente su dati Ispra-Iffi) gli eventi franosi registrati nelle sette regioni dell’arco alpino sono stati 671.
A questo si aggiungono gli eventi di meteo estremo. Nel corso dell’anno, l’osservatorio Città Clima di Legambiente ne ha contati 154, sempre nelle regioni alpine, mentre nel 2024 erano stati 146. Tra questi vi sono 52 allagamenti da piogge intense, 27 danni da vento, 25 esondazioni fluviali e 21 frane da piogge intense. Da questo punto di vista è la Lombardia la più colpita, con 50 eventi meteo estremi, seguita da Veneto (32), Piemonte (32) e Liguria (27). E le prospettive non sono incoraggianti: uno studio condotto dagli scienziati delle università di Losanna (Unil) e di Padova, basato sull’analisi dei dati di quasi 300 stazioni meteorologiche montane, indica che un aumento di 2 gradi centigradi della temperatura regionale potrebbe raddoppiare la frequenza di questi eventi estremi.
Che si sommano a un minor numero di nevicate in quota, con la conseguenza di una riduzione dell’area glaciale che negli ultimi 60 anni è già diminuita di oltre 170 km quadrati. Tra i ghiacciai in maggiore sofferenza, valutati quest’anno, ci sono l’Adamello-Mandrone, il più esteso d’Italia, che risulta in forte declino con un abbassamento di 4 metri della superficie, l’Aletsch in Svizzera, il più vasto delle Alpi Europee, che nell’ultimo periodo ha registrato arretramenti della propria fronte di circa 40 metri all’anno e quelli dello Zugspitze, che secondo le proiezioni dei glagiologi tedeschi dovrebbe vedere scomparire le ultime tracce di permafrost entro il 2050.
Il tutto a meno di significativi cambiamenti di rotta che possano intanto frenare il declino e poi, sul lungo periodo, anche eventualmente contribuire a una almeno parziale inversione di tendenza. Ma non esistono ricette miracolose e soprattutto non si può intervenire se non in modo sistemico, su più fronti. Il monitoraggio ambientale di alta quota è il primo passo, secondo la strategia delineata da Legambiente, Cipra e Fondazione glaciologica italiana. Deve essere continuativo e finalizzato anche e soprattutto alla sicurezza delle persone, oltre che dei territori, e prevedere l’aggiornamento delle carte di pericolosità geomorfologica, così da supportare in modo corretto la pianificazione territoriale. Il rischio non dovrebbe essere noto solo agli esperti, che sono anzi i primi a chiedere campagne di informazione per la popolazione che vive nelle zone interessate, affinché venga aggiornata anche sulle misure per la riduzione del pericolo. Dovrebbero poi essere creati un catasto dei ghiacciai e una carta della distribuzione del permafrost con dati aggiornati, anche questi fondamentali per mettere a punto strategie più efficaci e che tengano conto della reale situazione. E tutto questo per potere predisporre piani di mitigazione e di adattamento, considerando che difficilmente si riuscirà mai a ritornare ad uno status quo ante, ovvero ad una presenza di ghiacci perenni (che tali non si sono rivelati) in grado di garantire stabilità e risorse idriche controllate. Per tutto questo è stato rilanciato il «Manifesto europeo per una governance dei ghiacciai e delle risorse connesse», lanciato nei mesi scorsi a Milano coinvolgendo anche il Club alpino italiano e già fatto proprio da oltre 80 soggetti tra associazioni, enti di ricerca e istituzioni nazionali e internazionali».
«Dal 2000 il riscaldamento globale – commenta Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi Legambiente e presidente di Cipra Italia – ha accelerato la perdita di migliaia di ghiacciai, piccoli e grandi, con effetti anche a valle. Il deterioramento del permafrost, ad esempio, ha un impatto significativo sui rischi in quota e, con l’avanzare della crisi climatica, fenomeni simili a quello di Blatten sono destinati a intensificarsi. L’analisi dei rischi, come quella sviluppata nel Canton Vallese, consente di individuare in anticipo le aree vulnerabili. Per questo il modello svizzero a nostro avviso merita di essere replicato e di essere preso come esempio insieme a quello sviluppato in Piemonte con il laboratorio a cielo aperto nei ghiacciai della Bessanese e della Ciaramella».
«Nonostante le abbondanti precipitazioni, talvolta eccezionali, e una stagione di ablazione iniziata relativamente tardi e terminata presto – sottolinea Valter Maggi, presidente della Fondazione glaciologica italiana -, il caldo estivo, intenso e continuo, ha determinato l’ennesimo bilancio negativo per i ghiacciai italiani. Il ritiro glaciale è la manifestazione più evidente del riscaldamento climatico che interessa stabilmente le nostre vette con un aumento della temperatura doppio rispetto il valore globale. Comprendere la meccanica e i fattori scatenanti di questi fenomeni, spesso complessi e rapidi, è cruciale per la valutazione dei rischi e per la sicurezza delle infrastrutture e delle comunità che risiedono a valle. È pertanto fondamentale che le Istituzioni assicurino un supporto strutturale e costante alle reti di ricerca sui ghiacciai a lungo termine»».
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